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giovedì, 30 Marzo, 2023

Antonio Ligabue. Una vita d’artista

La mostra al Palazzo dei Diamanti, documenta l’intera produzione dell’artista. L’uso dei colori accesi lo rende uno dei pittori più originali del Novecento.

Antonio Ligabue (1899-1965) è capace di emozionare con una sola pennellata di colore e di trasportarci all’interno del suo mondo genuino, dalle scene familiari, e visionario.

La mostra al Palazzo dei Diamanti, uno dei monumenti più belli da visitare a Ferrara, offre l’occasione di (ri)scoprire tratti e colori di un artista che respinge ogni etichetta e categorie troppo rigide per esprimere, come pochi, la forza naturale e istintiva del suo impeto creativo.

La vita travagliata di Antonio Ligabue

Antonio Ligabue: la storia di questo pittore rintanato tra le nebbie della Bassa Padana è stata raccontata da numerosi film, libri e documentari.
La sua vita è stata una lotta continua con sé stesso e il mondo circostante, da cui si prendeva una pausa solo grazie alla sua arte.

Anche questa, ovviamente, era in principio sottovalutata e giudicata come il prodotto di una mente disturbata, che lo aveva costretto a svariati internamenti in case di cura e manicomi.

Ed è proprio in questa sofferenza che sta il fascino della sua arte: un’arte selvaggia, primitiva, nella quale si percepisce uno stato d’animo irrequieto, aggressivo e a tratti malinconico.

Anche una volta raggiunta la notorietà, infatti, l’artista non smetterà di essere considerato un personaggio inquietante e diverso, con una strana parlata in cui tedesco ed italiano si mescolavano in maniera disordinata.

Un personaggio semplice e complicato al tempo stesso che, in fin dei conti, sperava solo di essere amato e apprezzato.

Corrente artistica: l’Art Naïf

La denominazione Arte Naïf si applica alla corrente artistica caratterizzata dall’ingenuità, la franchezza, i colori brillanti, l’evocazione della sfera infantile e un’espressione della prospettiva pressoché rudimentale. Questa particolare forma d’arte è oggi riconosciuta e rappresentata in tutto il mondo come una corrente sui generis.

Tuttavia, come molte altre forme d’arte, in principio era osteggiata dalla critica e dal resto degli artisti, nonché considerata un’espressione creativa puerile e priva di struttura.
Vero è, che veniva creata da una persona che mancava di educazione artistica formale.

I temi abituali di tale scuola sono la vita in campagna, la dimensione familiare, gli usi e i costumi, le tradizioni e la religione, il tutto in un tratto molto colorito e sgargiante. A differenza di molte altre correnti, l’arte Naïf non è necessariamente legata ad un contesto culturale distinto o ad una tradizione specifica.

Curiosità: il termine “Naïf” in francese significa “ingenuo” e, perciò, rispecchia la natura intrinseca di questa corrente artistica.

 I colori delle bestie feroci

Pur rientrando nella corrente dell’Arte Naïf, le opere di Ligabue sono intrise di una violenza quasi primitiva.
L’artista è interessato a ritrarre la lotta truce per sopravvivere ad una vita che lo delude di continuo.

E’ una lotta che mostra animali selvatici intenti a combattere. Non nel momento precedente o successivo, ma nell’agguato nel suo svolgimento.
Una cruda lotta per la sopravvivenza che rimane sempre parallela alla sopravvivenza dell’uomo che dipinge.

Qui vediamo la sua emblematica “Testa di tigre”, in un ruggito violento e gli occhi puntati direttamente sull’osservatore.
Istintivo, selvaggio, folle: il mondo interiore di Antonio Ligabue era esattamente come gli animali violenti che ritraeva.

L’artista era capace di trasportare i suoi demoni sulla tela, creando opere potenti, dall’immediato impatto visivo come, per esempio, “Leopardo”.

Il suo era un mondo fatto di bestie feroci ma vivacemente colorato.
Nel suo casolare isolato, non fece altro che riprodurre sulla tela, in modo quasi ossessivo, soggetti sempre simili: tigri, galli, leopardi, leoni e autoritratti. In manicomio i medici affermavano: “dipinge in modo primitivo, comincia dall’alto con pentimenti e correzioni, sino al margine inferiore…”.

Autoritratto con farfalla

Altro tema frequente nella produzione artistica di Antonio Ligabue è l’autoritratto. Innumerevoli i pezzi in cui ritrae se stesso di tre quarti, in un tentativo continuo di trovarsi, di esplorarsi, di accettarsi.

In “Autoritratto con farfalla” possiamo scorgere un dettaglio che si trova sempre qua e là nei suoi autoritratti, come anche in quadri di altro soggetto: in questo caso, una farfalla bianca che svolazza, all’apparenza totalmente sovrabbondante.


Un giorno qualcuno gli chiese per quale motivo sentisse il bisogno di aggiungere una farfalla alle sue opere nonostante sembrassero complete.
La sua risposta fu immediata: «Questo è il premio che mi do quando un quadro mi soddisfa più di un altro».

Ligabue: scultore randagio

Antonio Ligabue non era molto loquace, si esprimeva con difficoltà in un misto di italiano e tedesco, ma aveva un talento naturale per il disegno.
In giovane età, si guadagnava da vivere facendo il manovale sul Po e mille altri mestieri, lontani dalla pittura.

Tuttavia, ebbe occasione di dipingere cartelloni e fondali per circhi equestri. Proprio da lì ha inizio la sua passione artistica.

Il critico d’arte Maurizio Vanni parla così del pittore:

Ligabue è un randagio della cultura, un artista libero dentro che, alla vulnerabilità emotiva congenita, ha unito grandi tragedie personali vissute nell’infanzia e nell’adolescenza; la sua cosciente follia, la sua istintività primitiva, il suo lasciarsi trasportare da eccessi emotivi lo hanno reso unico nel panorama delle arti visive del secolo scorso

Oltre alla pittura, tuttavia, Ligabue si dedicò anche alla scultura, dove applicò una minore deformazione dei soggetti.
Era una scultura in terra non cotta, ma asciugata. Un’argilla del Po, che masticava al fine di renderla malleabile e che modellava in modo ossessivo con le sue mani nervose.

Le prime opere purtroppo sono andate perdute, perché l’artista non era solito sottoporle al processo di cottura che le avrebbe rese più resistenti. Oggi, da molte delle sue opere sono state ottenute fusioni in bronzo, per preservarle dal tempo.

Il Van Gogh della Val Padana

Il “Van Gogh della Val Padana”, così come viene definito, dopo la sua morte viene imitato inutilmente da molti pittori in cerca di successo. Ma, come è giusto che accada, la genialità è irraggiungibile perché sorge da un impeto interiore di individui che non riescono a vivere nella realtà.

E nel caso di Ligabue, soprannominato anche il matt (il matto), si tratta di una genialità scaturita da un interminabile e angosciante sogno.

Le parole dei conterranei:

– Lui non parlava, non giocava, beveva solo.

– A chi gli offriva qualcosa, anche un uovo, regalava quadri o disegni.

– Era un tipo schivo.

– Con la sua moto andava solo per osterie.

– Mentre mangiava, con una matita disegnava sulla tovaglia o tovaglioli. A volte prendeva una posata ed intagliava i tavoli in legno.

“Dam un Bès”

Sembra una storia a lieto fine, quella di un artista che con il suo estro creativo riesce a superare i limiti imposti da un’infanzia difficile; eppure c’è un dettaglio che forse svela un finale diverso.

È un dettaglio nascosto in una frase: “Dam un bes (Dammi un bacio)”. Una richiesta che Antonio Ligabue ripeteva ad ogni donna che incontrava, tanto che i Nomadi ci hanno scritto una canzone. Una frase che celava un bisogno di amore genuino che neanche il successo, i soldi e il talento erano riusciti a conquistare.

“Un bès… Dam un bès, uno solo! Che un giorno diventerà tutto splendido. Per me e per voi”.

La passione per la moto

La pittura di Ligabue è ormai famosa in tutto il mondo. Tuttavia, non è altrettanto nota una passione che l’artista ha cominciato a coltivare con la stabilità economica che la carriera gli ha portato: la motocicletta.

Un amore viscerale, un mezzo di libertà che ne ha in qualche modo stimolato l’opera artistica, poiché, come raccontano testi e studiosi, molto spesso Ligabue dipingeva per poter avere qualcosa con cui ripagare i meccanici che sistemavano la sua moto.

Anzi, le sue moto, visto che Ligabue ha posseduto almeno sedici Moto Guzzi.

“Quando era disperato e senza una donna saliva sulla moto e sfidava la nebbia dei viottoli di campagna, perché la testata scoppiettante e calda della Guzzi era l’unica consolazione contro il gelo dell’inverno e l’ostilità imperscrutabile del mondo”, racconta Edmondo Borselli in un saggio sul pittore naif.

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